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USA: l'industria della moda reagisce alle radicali modifiche tariffarie imposte da Trump

Gli esperti affermano che le nuove politiche probabilmente aumenteranno i prezzi e indeboliranno la fiducia dei consumatori, e difficilmente riporteranno in auge la produzione manifatturiera statunitense.

I dazi introdotti la scorsa settimana dal presidente Donald Trump includono una tariffa di base universale del 10%, in vigore dal 5 aprile, e dal 9 aprile tariffe individuali più elevate sui partner commerciali statunitensi.
L'elenco ufficiale delle tariffe incrementali include molti dei maggiori partner commerciali degli USA e i principali fornitori dell'industria della moda. La Cina dovrà affrontare dazi pari al 34%, il Vietnam del 46%, il Bangladesh del 37%, per l'UE del 20%.
Trump ha anche terminato l'esenzione de minimis per i beni provenienti da Cina e Hong Kong dal 2 maggio, con altri Paesi che potrebbero seguire. A quel punto, i beni di valore pari o inferiore a $800 che altrimenti sarebbero esenti da dazi saranno soggetti ad un'aliquota doganale pari al 30% del loro valore o a $25 per articolo, che aumenterà a $50 per articolo dopo il 1° giugno

Ecco una elenco di dichiarazioni fornite da alcuni esperti su come queste modifiche tariffarie proposte avranno un impatto sull'ecosistema globale della moda:

- United States Fashion Industry Association - ha affermato che “l'industria della moda dipende dalla Supply Chain globale più di qualsiasi altro settore di beni manifatturieri. Sebbene i dazi possano essere uno strumento utile per affrontare le pratiche commerciali sleali, hanno un impatto sproporzionato sull'industria della moda. Le importazioni statunitensi di tessuti e abbigliamento sono soggette ad alcune delle aliquote tariffarie più elevate. Ad esempio, nel 2024, la tariffa media sull'acciaio era del 5%, mentre la tariffa media sull'abbigliamento era di un sorprendente 14,6%.” Nonostante queste tariffe elevate, l'associazione ha affermato che “la percentuale di abbigliamento prodotto negli Stati Uniti rimane solo del 3%. L'industria tessile e dell'abbigliamento paga dazi doganali più elevati da decenni, con scarso impatto sulla rilocalizzazione della produzione”

- Steve Lamar, presidente e CEO dell'American Apparel and Footwear Association - ha evidenziato i dazi elevati che le aziende di moda devono già affrontare. “la tariffa media su vestiti, scarpe e accessori, beni di prima necessità che ogni americano deve acquistare, era già più di cinque volte superiore a quella di altre importazioni statunitensi. La vera liberazione avrebbe comportato l'eliminazione di questo elevato onere tariffario e l'alleggerimento dei consumatori statunitensi dai suoi effetti regressivi e misogini, piuttosto che l'aggiunta di ulteriori costi che alimentano l'inflazione. Mentre accogliamo con favore l'attenzione del presidente Trump sulla riduzione delle barriere commerciali estere, dobbiamo ridurre anche le elevate barriere commerciali americane e farlo in modo prevedibile, che consenta investimenti a lungo termine e decisioni sulla catena di fornitura”

- David Swartz, analista azionario senior presso Morningstar Research Services - ha affermato: “È improbabile che tutto ciò aumenti la produzione di abbigliamento, calzature, accessori, articoli per la casa, ecc. negli Stati Uniti, perché è semplicemente impossibile. Ci vorrebbero miliardi e miliardi di dollari di investimenti e, a meno che il governo non dia alle aziende denaro per costruire nuove fabbriche, non faranno quell'investimento. Non hanno motivo di farlo, perché quando la fabbrica aprirà, tra anni, i dazi potrebbero non esistere più”. I fornitori di moda si sono probabilmente preparati a questa mossa, ha affermato Swartz, anche se le loro opzioni a lungo termine rimangono limitate. “Sono sicuro che ci sono magazzini pieni di scarpe e vestiti in questo momento che sono stati immagazzinati nella possibilità che ciò potesse accadere”, ha osservato. “Dopo sei mesi inizierà a diffondersi il panico. Quindi l'industria sarà nei guai. Ora dobbiamo aspettare e vedere quanto durerà la guerra commerciale”

- Piattaforma di resale ThredUp - ha affermato che la politica tariffaria è una “vittoria significativa sia per l'ambiente che per il futuro della moda sostenibile. Per anni, la scappatoia de minimis ha fornito un vantaggio ingiusto ai retailer di fast fashion, consentendo loro di inondare il mercato con articoli a basso costo e di breve durata, aggirando al contempo i dazi all'importazione. Livellando il campo di gioco, questo ordine tariffario incoraggia un passaggio verso un'economia più circolare, in cui gli abiti hanno una seconda vita, riducendo gli sprechi e le emissioni di carbonio”

- Alice Price, analista di abbigliamento presso GlobalData - ha affermato che “queste tariffe avranno un impatto enorme su player globali come Abercrombie & Fitch e Nike, che hanno Supply Chain molto diversificata e importano enormi quantità nel Paese, mentre i value player come Shein avranno un impatto nelle vendite a basso costo. I player che importano dovranno quindi trovare il modo di compensare i costi più elevati, i consumatori avranno problemi di disponibilità di prodotto. I brand probabilmente aumenteranno i prezzi e potrebbero spingere i fornitori a spostare i loro stabilimenti in regioni meno colpite dai dazi. Spostare la produzione negli USA sarà una sfida perche' non c'e' l'infrastruttura ne' la specializzazione necessarie per produrre a prezzi competitivi. I brand dovranno comunque importare materiali dall'estero, che saranno anch'essi soggetti a dazi, con conseguente aumento dei prezzi. L'impatto dei dazi abbasserà ulteriormente il sentiment dei consumatori in un clima macroeconomico già difficile, con un impatto negativo sulla spesa discrezionale”


- William Blair equity research - ha osservato che “i dazi del 2 aprile sembrano concepiti appositamente per ostacolare l'industria dell'abbigliamento, con i dazi più elevati che prendono di mira regioni che nel complesso sono la fonte del 50% delle importazioni di abbigliamento e una tariffa media ponderata di circa il 32% ora imposta ai Paesi che sono la fonte di quasi l'85% delle importazioni di abbigliamento”. Spostare la produzione in altri Paesi sarà una sfida considerando la manodopera qualificata e le infrastrutture di cui le aziende hanno bisogno. “Riteniamo che l'aumento complessivo del costo delle merci sarà probabilmente di circa il 30%, di cui è lecito supporre che le aziende dovranno assorbire una quota equa”

- Evercore ISI equity research - ha sottolineato la dipendenza dell'industria della moda dal Vietnam come fornitore. “In media, i brand si riforniscono di circa il 45% dei beni dal Vietnam. I brand di abbigliamento e calzature sono stati bravi a spostarsi verso hub di approvvigionamento a basso costo nel tempo, ma l'attuale piano tariffario non lascia nulla da nascondere”. Ha continuato: “Nelle nostre recenti conversazioni di settore, i contatti hanno menzionato che le fabbriche in Asia hanno espresso la volontà di assorbire la maggior parte dell'impatto dei dazi nel breve termine per impedire ai brand di strappare via i volumi all'improvviso, riconoscendo che non è probabilmente un buon momento per provare ad aumentare i prezzi per i consumatori americani”